Fernando Izzi - The iron

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Esposizione  "Memorie"  Consolato Italiano Generale a Liegi


Memorie

Mi sono spesso chiesto quale sia la differenza specifica che corre tra l'iconografia della scence fiction e i prodotti d'arte in senso proprio. Credo che la risposta sia, come sempre del resto, nello stato d'animo dell'esecutore. L'illustratore mediatico attinge senz'altro al regno dell'immaginario, dimenticando il possibile. Vi sono ovviamente interessanti eccezioni, ma di solito i problemi e le urgenze, le malinconie e le tragedie, le allegrie e i drammi della condizione umana vengono tralasciati. La produzione d'arte invece, con iter di direzione opposta, sente l'urgenza di ammettere il possibile nel vissuto. E' la solita lezione, quella che da Bosch e da Bruegel passa per Moreau e Redon.

I quadri di Fernando Izzi rispondono a questa esigenza sentita, indagare il possibile e l'estraneo, nel tentativo costante di riportarli all'uomo. I suoi paesaggi esibiscono cieli lividi immacolati di rosso, notti e albe che alludono ad altri mondi, monti e valli talora stranamente tinti di bagliori metallici castelli di rupi e villaggi disabitati -una sorta di Molise rivisto in sogni-. Ma in tutto ciò si avverte costante la presenza del problema umano, il suo problema.

Oltre i fiumi e tra gli alberi dei suoi silenziosi panorami, noi non immaginiamo spuntare i robot e i cyberman della nuova favolosa cosmopoli, ma piuttosto vediamo, e sentiamo, spuntare noi uomini di  sempre, con le nostre cure e speranze, ed anche ­questo in senso dei suoi «effetti di estraniamento»- con le nostre frequenti brame di evasione, di liberazione da un presente che talora si rileva un poco troppo inospite.

In questa pittura dunque regna il possibile, che è la speranza di portare sotto altri cieli questo nostro essere, non di cessare di essere noi.

E' qui che queste figurazioni si rivelano interessanti. Ed è qui che io, come ogni osservatore attento, trovo la confessione, e talora la risposta, a quei sogni «proibiti» che ciascuno di noi in qualche modo coltiva. Insomma una pittura tecnicamente definibile «religiosa». Portarsi altrove restando se stessi: questo il persistente, religioso tentativo d'ogni nostro risveglio.

Prof. Leonardo Cammarano

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